Intervista a Maderu Pincione sull’anatomia esperienziale

Il modello

 

I modelli su cui si basa la disciplina craniosacrale sono in continua evoluzione grazie all’incontro e all’integrazione con sensibilità ed esperienze diverse.
Alcune delle idee più interessanti in questo senso sono arrivate dal processo di integrazione tra i principi della disciplina craniosacrale e quelli propri dell’Anatomia Esperienziale, avvenuto in questi anni grazie al lavoro sviluppato con J. Tolja, medico che si occupa dello studio del corpo per via esperienziale e delle sue implicazioni per le diverse discipline.
Delle possibili evoluzioni del modello classico della disciplina craniosacrale proposte da Tolja, ne parliamo con Maderu Pincione, responsabile del corso triennale di formazione craniosacrale all’interno del quale questo lavoro di ricerca si è sviluppato.

Tutto iniziò con una storia di cadaveri a duecento euro…

Intervista a Maderu Pincione

D: Da quale tipo di intuizione, esperienza o conoscenza è nata l’idea che potesse essere utile integrare l’anatomia esperienziale nella formazione craniosacrale?
R: Quello che mi ha motivato all’inizio sono stati i cadaveri (ride).
Sutherland ha sempre parlato di “anatomia del vivente”, che è una cosa impossibile da fare nelle aule di dissezione dei cadaveri, sui modelli anatomici. Infatti o facevo anatomia esperienziale o andavo in Germania a fare questi corsi sui cadaveri organizzati…a 200 euro ad incontro….

D: Quindi l’integrazione dell’a.e. per te è nata realmente come un’alternativa alla dissezione del cadavere…l’hai fatto solo per evitare i cadaveri…?! (ridendo)
R: E’ stato proprio seguire un pochino quest’idea. Se prendi ad esempio “il viaggio del pesce rosso” di Sutherland con le sue visioni dell’anatomia vivente, dopotutto è molto simile, molto sinergico al tipo di lavoro che si proponeva…Ma con un vantaggio: che di per sé l’esperienza individuale di conoscenza interna del proprio corpo, delle sue strutture, delle sue leggi diventa anche un modo di percepirsi, di comprendersi e quindi è la modalità con cui il terapista riesce in qualche modo ad avere un lavoro di terapia per sè stesso. Come fai a sentire se non ti senti, a lavorare su una struttura anatomica se non l’hai percepita, digerita, masticata, assorbita… se non ce l’hai rappresentata tridimensionale e in movimento, ma anche in termini di odore, di sapore?! E’ un tipo di anatomia che su un cadavere dissezionato non puoi trovare. Questo è stato il vero punto iniziale…
Poi quello che è venuto fuori man mano che il nostro lavoro è andato avanti, è stato una scoperta di principi e aspetti che hanno anche influito profondamente sulla teoria, sulla “tecnica” craniosacrale…
Come ad esempio il lavoro sui piani, sugli assi… ha proprio cambiato la concezione e la tecnica…

D: Puoi fare un esempio concreto?
R: Per verificare se il movimento che percepiamo fosse il vero movimento oppure quello che evochiamo con le nostre aspettative abbiamo diviso un gruppo ancora inesperto che stava percependo il ritmo c.s. nelle gambe in tre sottogruppi.
Ad uno abbiamo allora suggerito che il movimento craniosacrale avvenisse sul piano sagittale, ad un altro ancora sul piano verticale e al terzo nel modo classico sul piano orizzontale, con la rotazione verso l’interno e verso l’esterno degli arti inferiori.
Il risultato è stato che il ritmo e il movimento è stato percepito da ogni gruppo sul piano che era stato indicato.
Se veramente il piano orizzontale fosse stato più ‘reale’ degli altri due quello che si sarebbe verificato è che il gruppo che sentiva il movimento su questo piano sarebbe stato facilitato, rispetto agli altri due.
Ma così non è stato.
Tutti e tre i gruppi percepivano con eguale facilità il piano che era stato loro indicato come essere quello reale.


D: E quindi cosa ne deduci?
R: Che il vero movimento del fluido e del connettivo segue in realtà un movimento tridimensionale che si esprime contemporaneamente su tutti i piani e che i movimenti che vengono insegnati non sono che forme molto semplificate di tale movimento in cui, di fatto, viene isolato un unico piano di movimento ed eliminati gli altri due: perciò noi di fatto percepiamo il movimento sul piano che conosciamo e rimuoviamo quelli che non conosciamo. Una situazione fisiologica si ha soprattutto quando riusciamo ad esprimere un movimento bilanciato in contemporanea su tutti questi tre piani.
Personalmente ho trovato trasformante il riproporre artificialmente l’esperienza degli assi come esperienza di percezione. Per riuscire a percepire un movimento così complesso come quello del movimento fluido del sistema craniosacrale, è stato molto utile suddividerlo sui vari piani: prova ad esempio a sentire il piano orizzontale, a vivere per un giorno intero sul piano orizzontale…
Penso a tutte le frecce che ci sono sui libri; esse sono facilmente identificabili come piani… anche perché la rappresentazione del libro è forzatamente su un piano… Siccome queste frecce non hanno una connotazione tridimensionale, esse mantengono questo livello, per cui il lavoro ai piedi dello stillpoint è sul piano orizzontale, il lavoro sul sacro si svolge sul piano verticale; diventa un rischio di limitazione inconscia del terapista. Un lavoro chiaro sui piani invece fa “accendere le lampadine” per l’individuazione dei piani, anche per entrare in una dimensione fluida in cui esprimi tutti i piani contemporaneamente. Tutto rientra sempre in una complessità, però una percezione chiara dei piani mi aiuta percepirla , descriverla ed esprimerla. E’ come essere riusciti a fare le aste per imparare a scrivere… oltre alla capacità di leggere meglio i piani, è stato importante capire ciò che i piani ci raccontano del tipo di situazione in cui è la persona! Questo è un lavoro che mette insieme psiche, corpo ed emozioni ed è per me tutt’ora oggetto di ulteriore evoluzione…

D: Sempre da un punto di vista percettivo hai avuto modo di notare altre differenze?
R: E’ stata significativa anche la possibilità di ampliare lo spazio di percezione… Il gesto che parte dal centro, che va verso l’esterno e poi si amplia all’esterno. Quest’amplificazione del gesto diventa anche amplificazione della percezione, diventa la capacità di usare lo spazio. E’ stato come integrare il movimento nel sentire: è come aver messo insieme un esercizio di percezione diciamo statico con un’esperienza vissuta di movimento, di spazio… e integrando col movimento si modificava anche l’emozione, l’atteggiamento del corpo, l’atteggiamento della mente… tanti aspetti che non erano esattamente compresi nel lavoro diciamo “statico” fra virgolette, nè con la percezione del cliente sul tavolino… Sì… è come se “il modo di fare classico” fosse autolimitante… il risultato è stato un superamento di un limite che era lì così, senza renderti conto di avere fin quando non ci vai oltre. Fin quando non ti “allarghi”, non ti rendi conto che stavi limitando inutilmente la tua potenza, il tuo spazio…


Un ingrandimento della miofascia: lo “zucchero filato” sono fibre collagene endomisiali che avvolgono e fasciano completamente le fibre muscolari carnose.
Dal libro “Anatomy Trains”

D. C’è qualche altro aspetto di quest’esperienza che ti è sembrato particolarmente significativo?
R: Sì ed è stato percepire esperienzialmente la continuità tra l’esterno e l’interno dell’osso, tra un osso e l’altro, tra muscolo tendine e legamenti etc, per cui non esistono più tante strutture come ossa muscoli e tendini, legamenti, capsule, fascia etc. separate le une dalle altre. Si percepisce chiaramente come questi sono solo aspetti della stessa sostanza fondamentale che si è specializzata qua e là assumendo caratteristiche differenti, ma fondamentalmente appartenendo allo stesso continuum connettivale.
Un conto è comprendere questa continuità intellettualmente attraverso l’embriologia o con le ultime teorie scientifiche che vedono la sostanza fondamentale del corpo fatta come da cristalli liquidi che si organizzano e si polarizzano e sono capaci di memoria, un altro conto è percepire tutto ciò con questa chiarezza.

D. Ma questo poi alla fine cosa cambia per voi operatori terapisti craniosacrali ?
R: Innanzi tutto porta a una mappa totalmente differente, prima organizzata a seconda delle diverse strutture, ora organizzata invece sulla continuità connetivale. E’ come se descrivessimo un territorio non in base alle caratteristiche geologiche dello stesso, ma in base alla continuità del percorso delle vie d’acqua sotterranea che lo attraversano, indipendentemente che queste infiltrino e passino attraverso roccia, terra, sabbia, etc. Poi uno degli aspetti più eccitanti è che c’è altrettanto potenziale per un lavoro craniosarale e di riorganizzazione connettivale all’interno alle ossa di quello che puoi fare con le strutture connettivali meningee, fasciali etc esterne alle ossa…

D. Cioè puoi fare un esempio?
R: In craniosacrale se vai sullo sfenoide e i suoi movimenti lavori soprattutto sul movimento (es. torsione) nel suo insieme rispetto, che ne so, all’occipite, alle ossa della faccia, o alle membrane meningee. Ma lavorando in questo modo scopri che I movimenti e le torsioni intraossee sono altrettanto se non più importanti di quella percepita nello schema di movimento dell’osso stesso. E’ come se entrassi nell’osso e partecipassi ad una sua riorganizzazione profonda.

D. Perchè dici che potrebbe essere anche più importante del classico lavoro dall’esterno?
R: Perchè più vai in profondita più sembra di lavorare all’origine : quando lavori all’esterno puoi anche non cambiare nulla all’interno, ma se lavori all’interno inevitabilmente modifichi anche l’esterno. Eppoi esiste una connessione profonda, difficile da spiegare teoricamente, ma chiaramente percepibile a livello esperienziale tra il lavoro intraosseo e la dimensione viscerale e anche nella relazione con lo spazio esterno di cui parlavo prima

D. Che cosa intendi?
R: Paradossalmente ciò che percepisci è che più lavori in profondità, più ti allarghi e senti di compenetrare nello spazio. Ma mi rendo conto che se non i sei abituato a porre attenzione alla modificazione della percezione dello spazio (esterno) tutto ciò può apparire privo di senso.

D. E tu come hai sviluppato questa percezione?
R: Nel lavoro di anatomia esperienziale questo aspetto viene continuamente tenuto in considerazione. Come se l’individuo si trovasse continuamente in un punto di equilibrio percettivo tra spazio interno ed esterno.

D: Qual’è a posteriori il tuo bilancio al di là del punto di vista strettamente tecnico?
R: Adesso capisco con più chiarezza che una delle intuizioni che mi hanno portato a questa esperienza è stata la percezione dell’importanza che ha, per qualsiasi tecnica si utilizzi e con qualsiasi sistema corporeo si lavori, la capacità per chi la pratica di saper contestualizzare il proprio intervento. Non mi riesce di considerare un vero professionista un operatore che non è consapevole del contesto in cui si muove.

D: Puoi essere più concreto con un esempio?
R: Ok, ci sono in giro tutti questi corsi macdonaldizzati in cui in pochi giorni si autorizzano le persone ad andare e lavorare col sistema craniosacrale.
Ma qual’è la relazione tra questo sistema e gli altri sistemi anatomici – come ad esempio il connettivo, i muscoli, le ossa e gli organi e il sistema nervoso – e funzioni come ad esempio il respiro, la digestione, la circolazione.
Quando invece lavori in questo modo ti rendi conto molto meglio di come ad esempio la distribuzione del fluido modifica il tono muscolare, il modo di respirare e anche del perché questo succede.
Impari come puoi arrivare allo stesso effetto partendo tra strade e sistemi anatomici molto diversi e questo oltre a darti una diversa consapevolezza ti libera anche enormemente: se comprendi l’intera mappa non devi più attenerti pedissequamente alle indicazioni che ti sono state date.


Intervista a partecipante con modalità percettiva prevalente di tipo visivo-uditivo

(testi di Francesca R. Nascé)

D: Che senso ha avuto per voi partecipanti al corso, avere l’anatomia esperienziale dentro la formazione, e cosa senti che è cambiato, che è differente?
R: Io ricordo che la prima sensazione è stata quella di un approccio all’anatomia più umano e meno libresco. E’ stato come vedere le parti anatomiche in maniera precisa, ma nello stesso tempo non in maniera così
tecnica.
Sicuramente mi ha dato più morbidezza neltrattamento…
Mi ha dato molto più spazio nel lavoro: mi ha aiutato nell’ampliare la percezione dello spazio intorno a me e quello intorno al ricevente. Sì, essenzialmente la novità è stata la visione dell’anatomia sotto un altro aspetto che non fosse quello teorico, ma quello vissuto, esperienziale…

D: In che maniera quest’esperienza oggi informa il tuo modo di lavorare col cliente?
R: Chiedo di immaginare il movimento e di sentire la struttura che è coinvolta nel movimento…Chiedo di portare l’attenzione all’interno del corpo, iniziando proprio con delle tecniche che mi sono state suggerite
dall’anatomia esperienziale. E’ qualcosa che io ho vissuto come mia esperienza e che noto migliori il trattamento, migliori anche la percezione dei movimenti interni nella persona, nel cliente, non soltanto in me…

D: Se tu oggi facessi le tue sedute di craniosacrale senza aver avuto anche
questo background con quest’esposizione diciamo all’esperienziale, come
sarebbero…?
R: Avrei un approccio alla parte anatomica molto più tecnico, essenzialmente come se vedessi l’immagine di un atlante anatomico e non una struttura in movimento. Probabilmente mi ha aiutato proprio nella percezione
del movimento, ad avere un senso dell’anatomia come qualcosa di vitale animato dall’interno, non stampato lì.
E poi c’è anche un certo divertimento… Mi ha divertito notare quest’aspetto anche di gioco, di visualizzazione dell’anatomia nel trattamento… E’ stata formativa, utile…
Inoltre l’anatomia esperienziale, rallentandomi, ha aperto la strada al
lavoro sulle maree in modo molto naturale…

D: In che senso?
R: E’ proprio nel rallentare che mi è stata data una nuova possibilità
di ascolto. Potenziando in me sia la sensazione di sentire
dei suoni, come se questi fossero provocati dal movimento stesso, sia la sensazione
di osservare dall’interno la struttura che li produceva.
Questo modo di operare mi ha fornito nuove informazioni per il mio lavoro.


Intervista a partecipante con modalità percettiva prevalente di tipo propriocettivo

(testi di Divna Slavec)

D: In che modo è cambiato il tuo modo di lavorare, come sarebbe diverso se non avessi anche questo tipo di esperienza nel tuo background craniosacrale…?
R: Mi è venuta in mente un’esperienza quando sentendo una densità in una certa parte del corpo di una persona mi sono collegata coi fluidi, per esempio… e anche con lo spazio senza avere l’intenzione… e l’ho fatto su di me. Diciamo che avere quest’esperienza di anatomia esperienziale allarga tantissimo il campo…

D: Hai altre intuizioni al proposito?
R: Mi viene in mente un’esperienza che ho fatto qualche mese fa durante un’influenza… Ho fatto un paio di giorni con 40° di febbre e ho percepito tutto questo: ho sentito questo “fluido”, questa continuità che non finisce nell’osso, non finisce nel periostio, non finisce nel connettivo… Non c’era differenza fra i vari tessuti…!
Ho sentito l’osso morbido, ho sentito addirittura dove ho il canale mal curato di un dente… nell’osso ho sentito la parte morbida… è come una densità diversa, ma non c’è differenza fra i tipi di struttura… E poi un’altra cosa che mi è venuta in mente quando si parlava di cristalli liquidi; è anche un’esperienza di sentire, proprio sentire nel corpo, come un certo modo di essere, un certo tipo di mentalità, un certo tipo di organizzazione, un certo modo di pensare… come si sono strutturati nel corpo. E’ come se tutto il corpo fosse un continuo, più denso.. meno denso, più fluido… meno fluido, che costituisce qualcosa con una direzione, come una specie di struttura cristallina, ma non esattamente… E’ come se anche il pensiero in qualche modo fosse organizzato con una certa struttura nel corpo…

D: Hai notato differenze lavorando con persone che hanno avuto o meno questo tipo di integrazione nella formazione?
R: Vedendo come raccolgono le informazioni le persone che hanno fatto questo tipo di formazione , noto che sono meno di tipo visivo e tendenzialmente più ancorate al corpo; è come avere una mappa molto più grande e molto più dettagliata di ciò che succede… M’è venuta in mente un’esperienza in cui una persona si trovava abbastanza in difficoltà; aveva una sensazione come di avere una sfera che ruotava nella testa e una che ruotava nel bacino, ed era abbastanza sconvolta… L’ho invitata ad andare nei piedi per sradicarsi, ma ci sono andata anch’io attraverso questa conoscenza del corpo che ho esplorato e la situazione si è risolta; ho sentito l’attivazione del periostio nella tibia e l’ha sentito anche lei, sia pure con modalità diverse… Penso che il rapporto col corpo sia più diretto, questa non è una via mediata, che bisogna interpretare…
A me funziona così: siccome non vedo, non ho visto niente… Non ho la capacità di visualizzare, ogni tanto mi appare una cosa molto sfumata, tipo una fotografia a raggi X… Le informazioni le sento dentro, non so se è il massimo, se a me fa bene, ma mi funziona così…


Intervista a Jader Tolja

D: Qual’ è il punto di vista dell’anatomia esperienziale rispetto al lavoro sulle ossa?
R: Se guardiamo, da un’ottica ortopedica o meccanica, ovviamente si tratta di un approccio lezioso e praticamente superfluo. Ma se si guarda dal punto di vista dell’anatomia esperienziale, l’interno delle ossa non è un luogo particolarmente recondito ed esotico, ma anzi uno spazio estremamente significativo dal punto di vista sensoriale e delle sue relazioni connettivali.
Inoltre dal punto di vista embriologico possiamo vedere che il tessuto osseo non è che tessuto connettivo, semplicemente più specializzato in senso strutturale, e che comunque partecipa attivamente al movimento generale del connettivo che si ascolta e amplifica nella t.c.s.
Ma l’osso è rappresentativo proprio della qualità di rigidità e fermezza…

Effettivamente l’idea classica è che ogni individuo e ogni tessuto abbiano una loro qualità specifica, ma chiunque abbia fatto del lavoro corporeo di livello avanzato, sa per esperienza che un corpo può modificare istantaneamente la sua qualità, e così pure un qualsiasi tessuto.
Quando noi pensiamo alle ossa, pensiamo alla loro componente minerale essiccata o alla loro riproduzione in resina che ci viene mostrata nelle lezioni di anatomia, ma l’osso in vivo è tutto un altro mondo.
Le ossa hanno una percentuale di oltre il 20% di acqua, per non parlare del midollo osseo che arriva al 99%. Se noi prestiamo attenzione alla loro componente fluida, se la evochiamo, ben presto l’osso comincerà a rivelare il suo movimento spontaneo.


D: Quali sono secondo te altri preconcetti che possono limitare le potenzialità di lavoro craniosacrale?

R: Ogni modello e ogni nome che usiamo sono già di per se stessi dei preconcetti. Io credo che lo stesso prendere alla lettera il termine Cranio-Sacrale possa essere un grande pre-concetto.
E’ come se, ad esempio, usassimo il termine Milano-Roma per indicare l’Italia. Se non si considera che un termine che ha sopra tutto un valore storico e, per molti di noi, anche affettivo, si rischia di non rendersi conto che descrive sempre meno quello che il lavoro craniosacrale è diventato e soprattutto diventerà.
Ormai anche la terapia craniosacrale. si sta evolvendo verso un lavoro sempre più profondo e completo sulla matrice connettivale nella sua totalità, seguendone i movimenti spontanei di respiro e di riorganizzazione e reintegrazione.

D: Cosa intendi?
R: Il connettivo non è solo fasce, tendini e legamenti ma penetra ossa, organi e sistema nervoso.
Gli organi sono fatti per la maggior parte di connettivo. Il fegato è fatto solo in parte di cellule epatiche, circa l’ottanta per cento della sua composizione di fatto è connettivale. Reni e occhi sono costituiti al 100% di tessuto connettivo.

Il che significa che non solo è possibile lavorare con il movimento dell’organo nel suo insieme, come già succede ad esempio con la manipolazione viscerale, ma che è anche possibile seguire e facilitare il suo movimento di ’reimpasto interno’.
Lo stesso discorso vale ad esempio per il cervello che è costituito solo in minima parte da cellule nervose e invece per la stragrande maggioranza da connettivo sotto forma di vasi e soprattutto cellule gliali, che sono in pratica cellule connettivali vere e proprie.
Se non pensiamo al connettivo in termini di ’continuum’ ovviamente finiremo per limitare il nostro sentire e il nostro lavoro all’esterno di ossa, organi e sistema nervoso.