Intervista a Jader Tolja …perché pensare con il corpo…
Tratto da un Intervista di M. B. Pavita & P. Diyhani a Jader Tolja per il quotidiano la Repubblica.
Finchè non è nella carne, la conoscenza è solo rumore
proverbio della Nuova Guinea
La mente da sola non basta…
Intervista di M. B. Pavita & P. Diyhani a Jader Tolja per il quotiano la Repubblica.
D. Cosa significa ‘pensare col corpo’?
R. Un quadro appeso storto ci dà fastidio, istintivamente. Perché?
Siamo abituati a considerare le scelte estetiche come scelte mentali. In realtà l’estetica è radicata nel corpo, ha una base biologica. La sezione aurea la troviamo nelle piante, negli animali, nelle conchiglie e poi, certo, anche in architettura, nelle finestre, o in un quadro. Ma ciò non toglie che esista da prima dell’uomo e che costituisca la base biologica della nostra percezione estetica. Quando siamo in accordo con queste leggi naturali proviamo una sensazione di benessere. Quando siamo in disaccordo, creiamo una dissonanza, siamo a disagio. Siamo ‘fisicamente’ a disagio, tutti. Il modo in cui è strutturato uno spazio condiziona quello in cui si struttura il corpo. Uno spazio ti modifica a livello fisico. Uno spazio che ti priva della visione laterale, come un viale stretto da palazzi alti, ti porta ad una condizione di disagio: è come vivere con il paraocchi. Una piazza o un panorama molto ampio ti aprono invece a una condizione viscerale di benessere.
Poi questa risposta fisica può essere ignorata o presa in considerazione. La sfida del’pensare col corpo’ è quella di ricoscere e onorare queste sensazioni in situazioni anche più complesse rispetto al quadro storto, ma in cui comunque il corpo risponde con altrettanta immediatezza e chiarezza.
D. Come si impara a ‘pensare col corpo’?
R. Non si impara, semplicemente si smette di inibire qualcosa che c’è già. Prendiamo la differenza tra un campione e un fuoriclasse. Essa sta nel fatto che quest’ultimo non inibisce le qualità corporee. Vi attinge a piene mani. Non ha qualcosa in più. Semmai ha meno sovrastrutture mentali. E’ come la storiella della formica che incontra il millepiedi e gli chiede: ’Con tutte quelle gambe, come fai a non inciampare mai?’. Lui, per rispondere, comincia a pensarci su e da allora non riuscì più a camminare. Gran parte dell’educazione motoria e sportiva che riceviamo ci insegna un modo cerebrale di essere nel corpo. Anche una ballerina di danza classica assume posizioni che sarebbero impensabili in una scimmia e in un bambino. Eppure un bambino di due anni si muove con una grazia e una coordinazione incredibili. L’educazione motoria ci insegna movimenti da robot. Braccia tese in avanti o incrociate di lato. Sono movimenti inventati dalla testa, innaturali. Se vogliamo stimolare l’intelligenza del corpo dobbiamo seguire quello che farebbe il corpo, spontaneamente. ‘L’esplorazione fuori è finita, mentre è tempo che cominci quella dentro’, dice il noto alpinista ed esploratore Walter Bonatti.
D. Del resto abbiamo fatto ricorso, per secoli, alla metafora del corpo come macchina. Una macchina meravigliosa, ma una macchina.
R. Il punto è che vi sono dei periodi, sia da un punto di vista storico che individuale, in cui la mente sente il bisogno di controllare il gioco. Per gli uomini è stato importante pensare di essere al centro dell’universo, proprio per una questione di sicurezza, di identità. Non è stato solo un errore di tipo astronomico. E’ stato un bisogno culturale. Nel momento in cui questa sicurezza non è più stata così vitale è potuta arrivare la rivoluzione copernicana. L’idea di non essere al centro dell’universo non ci mandava più in frantumi. Lo stesso accade nel rapporto tra corpo e mente. In certe epoche è stato importante pensare che l’anima e le emozioni fossero nella testa. Si faceva girare la testa attorno al corpo, come si faceva girare il sole attorno alla terra. Questa fase storica e culturale è tramontata e alcune persone capiscono che la testa è stata creata in funzione del corpo, non viceversa.
D. Vuol dire che ci stiamo lasciando alle spalle un periodo storicamente adolescenziale?
R. Anche da un punto di vista storico, probabilmente, l’adolescenza è una tappa obbligata. Nell’adolescenza l’attività mentale prende il sopravvento. E’ il momento in cui sei più dotato fisicamente per giocare a scacchi o programmare un computer. Magari non diventi campione a diciassette anni, perché ti serve anche l’esperienza, ma quello è il periodo in cui hai la massima capacità di astrazione. Per questo gli adolescenti sono così insicuri. Danno molta importanza a come appaiono. Se non sei radicato nel corpo, senti che la situazione è precaria. Negli ultimi secoli abbiamo sviluppato tecniche di movimento, gusti estetici, un’educazione, ma anche una musica e un’architettura, che incrementavano il controllo cerebrale. Adesso, visto che già l’abbiamo, possiamo permetterci di cavalcare liberamente, invece di continuare a stordire il cavallo.
D. Veniamo all’oggi. Che cosa ci aiuta a ristabilire un contatto con il corpo e con la sua intelligenza?
R. Statisticamente una donna in gravidanza è una pensatrice corporea. La sopravvivenza del feto costringe a radicarsi nel corpo. Ma, a parte questo, potrei rispondere che non puoi fare arte se non pensi col corpo. Solo quando sei in profondo contatto con la tua anima e con il tuo corpo puoi esprimere qualcosa di trascendente. Al corpo puoi arrivare anche perché costretto da una malattia. La malattia ti porta spesso al punto in cui capisci che non puoi continuare a fare una cosa solo perché la tua mente lo vuole. Sei costretto a guardare quello che ti succede veramente. Se hai uno stomaco che digerisce anche i sassi non ti accorgi degli effetti che hanno i cibi su di te. Quando cominci ad avere qualche problema, sei costretto a fare attenzione a quello che mangi. La malattia spesso ti obbliga a mettere un freno all’onnipotenza della testa. Ti costringe a sentire, come la gravidanza.
D. Che cosa invece ci aiuta a non sentire le informazioni corporee?
R. Molte cose, naturalmente. Nel corso dei secoli i mezzi inventati per far ruotare la testa attorno al corpo sono stati molti. Dal tipo di educazione, come ho detto, ad altri apparentemente più minuti e banali. Sa come è diventato popolare il caffè? Negli Stati Uniti, agli inizi di questo secolo, si sono accorti che i lavoratori producevano di più quando lo bevevano e hanno quindi introdotto i distributori sui posti di lavoro. Il caffè permette di controllare con la mente i bisogni del corpo. E’, in seme, il meccanismo che porta una squadra a dopare i propri atleti e a bruciarli nel giro di due stagioni piuttosto investire nel tempo. Come invece è accaduto per Baggio che, a 36 anni, continua a giocare. Oggi, infatti, ci si rende conto che le aziende in grado di sopravvivere sono quelle più complete, in cui le persone sono in contatto con se stesse. Quando accentui il controllo della mente hai vantaggi solo sul breve periodo.
D. Poi la gente va un po’ fuori e deve andare in terapia.
R. Sì, ma il discorso sulla psicoterapia è complesso perché una psicoterapia che lavora a livello della mente ti sradica ancora di più. All’Università dell’Ohio, negli Stati Uniti, hanno condotto una ricerca per capire quali caratteristiche deve avere una psicoterapia, per funzionare. Hanno filmato migliaia di sedute. A un certo punto si sono accorti che erano in grado di predire se una terapia avrebbe avuto successo o no. Avevano individuato un parametro molto semplice: il tempo della risposta. Se il paziente rispondeva immediatamente a una domanda che gli aveva posto il terapeuta, non c’era cambiamento. Le persone più lente nel rispondere, invece, cercavano di cogliere anche le proprie reazioni fisiche di fronte alla domanda. Tra l’entrata della domanda e l’uscita della risposta c’era un periodo di percezione del corpo. E’ una realtà indipendente dalla scuola a cui appartiene il terapeuta. Dipende piuttosto dal fatto che questi incoraggi o meno il desiderio del paziente di conoscere le proprie sensazioni corporee. Per questo dicevo che non conta la tecnica ma l’atteggiamento.
D. E cosa invece ci fa perdere contatto con il corpo?
Se si vuole evitare l’integrazione con il proprio corpo, le strade sono infinite. Anche la psicoterapia va bene. Puoi andare avanti anni a raccontare quello che vuoi. Il problema è: quando pensi solo con la testa non distingui più ciò che è finto da ciò che è reale. Non avendo radicamento nella realtà e nel corpo, una cosa finta e una reale diventano equivalenti. Confondere il modello con la realtà è come entrare in un ristorante e mangiare il menù, diceva Arthur Bloch. Abbiamo conservato il cervello di Einstein in formalina, per poterlo studiare ancora oggi. Come se tutto quello che pensava l’avesse elaborato nella sua testa. Ma Einstein stesso diceva che le sue intuizioni nascevano dal corpo. Di fronte a situazioni così complesse, come quelle poste dalla fisica nucleare, la testa da sola non ce la fa. L’intelligenza non è situata solo nel cervello, ma in cellule distribuite in tutto il corpo, sostiene lo scienziata americana Candace Pert.
D. Vuol dire che gli scienziati pensano col corpo?
R. Questa non è una novità. Leonardo usava il corpo come strumento di pensiero. Si dice che riuscisse a piegare un ferro di cavallo, anche se era vegetariano. Cavalcava benissimo. E’ una questione molto importante. La vera conoscenza avviene quando confronti l’informazione che ti arriva da fuori con la reazione che hai dentro. Il pensiero creativo è solo la sintesi tra queste due cose. Wright parlava dell’importanza della fisicità per gli architetti. Prima di metterli a progettare li faceva lavorare manualmente nella sua scuola. Riteneva che questa fosse la radice. Altrimenti vengono fuori cose mentali. Case inenarrabili.