Inspirato e tratto da “Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche” di Van Der Kolk, fa parte della bibliografia essenziale sul trauma che vede nel corpo (e non solo nella mente) gli effetti e la possibile risoluzione del trauma.
Attraverso il complesso tema del trauma e dei trattamenti più moderni orientati alla cura di persone traumatizzate.
Il nostro cervello e il nostro corpo reagiscono, elaborano e superano situazioni stressanti, talora riuscendo a ripararle completamente e a trasformarle in esperienze positive di forza e resilienza, talora lasciando attivo uno stato di allerta prolungato, cui il corpo si adatta ma che mostra segni anche a distanza di anni.
Come si insinua il trauma nella mente dei pazienti
Vivere a Boston può essere molto difficile! Può capitare di svegliarsi all’alba, prepararsi per andare a lavoro, uscire di casa e accorgersi che la propria auto è sepolta sotto un paio di metri di neve! La rabbia sale veloce come una vampata! Allora ci si rimprovera di non vivere in Florida e di essere stati stupidi a mettere radici in un posto così inospitale! In pochi attimi la rabbia cancella tutto quello che ci riempiva di energia, il buon umore sparisce! Ma il tempo scorre e bisogna risolvere il problema: non c’è altro da fare che prendere la pala e iniziare a spalare per liberare l’auto! Si spala con forza, nervosamente, maledicendo ogni gesto e ogni fiocco di neve caduto. Poi esce di casa un vicino che come noi ha trovato la sua auto sommersa. Poi un altro e in pochi minuti si diventa un piccolo gruppo. Tutti di pessimo umore, ma tutti che spalano. A poco a poco si inizia a cercare lo sguardo dell’altro, si inizia a scambiare qualche parola, a chiedere e offrire il proprio aiuto. Si inizia a condividere la frustrazione e persino a sorridere quando un ritardatario si aggiunge al gruppo. Solo allora la rabbia inizia lentamente a scendere, compaiono emozioni e sentimenti diversi. Empatia, solidarietà, compassione, accettazione. Alla fine ci si saluta e si sale in macchina. Lo sforzo fisico è stato molto intenso, ma finalmente è finito! Stanchi e infreddoliti ci si mette in viaggio verso il lavoro, ma soddisfatti di essere riusciti nell’impresa. Quello che pochi minuti prima è stato stressante, diventa ora un ricordo passato e si trasforma lentamente in un motivo di orgoglio, di conferma della propria forza e resistenza. Piano piano si affaccia poi nella mente un senso di appartenenza forte a quel gruppo, al quartiere, alla città. Può capitare allora di trovarsi a cena a raccontare di quanto si è orgogliosi di vivere a Boston, di quanto siano pigri e viziati quelli che in Florida non conoscono inverni così rigidi e non sanno cosa significhi spalare la neve appena svegli per andarsi a guadagnare da vivere! (Van Der Kolk 2015)
Il nostro cervello e il nostro corpo reagiscono, elaborano e superano situazioni stressanti, talora riuscendo a ripararle completamente e a trasformarle in esperienze positive di forza e resilienza, talora lasciando attivo uno stato di allerta prolungato, cui il corpo si adatta ma che mostra segni anche a distanza di anni.
Affrontare l’inverno rigido di Boston, diventa allora la metafora perfetta di come il nostro cervello reagisce alle situazioni stressanti e di come ci siano diversi livelli di elaborazione, che attimo per attimo intervengono a regolare emozioni, comportamenti e pensieri. La prima condizione necessaria alla resilienza è dunque uno stato emotivo iniziale di quiete, di sufficiente sicurezza e fiducia nelle proprie capacità. Aver riposato, aver mangiato, essere in buona salute e vivere una condizione familiare e di vita sufficientemente buone. Poi arriva un evento avverso che altera questo stato di cose e intervengono rabbia, paura, ansia e il sistema limbico – la parte più antica del nostro cervello – entra in uno stato di emergenza: ci blocchiamo un attimo, congelati di fronte al brusco cambiamento e non sappiamo cosa fare. La rabbia è intensa, la paura cresce, ma se siamo abbastanza in salute o possediamo gli strumenti per reagire o riceviamo l’aiuto necessario, allora il sistema limbico riesce a trasformare le emozioni negative in azione comunicando con le cortecce prefrontali per organizzare un piano d’azione, e con il tronco dell’encefalo per guidare il corpo nei movimenti necessari a realizzarlo. Il funzionamento sincrono e flessibile di questi livelli di elaborazione, garantisce la possibilità di affrontare la situazione e risolverla, uscendo dall’emergenza indenni e forse anche con un’idea migliore di se stessi.
Le variabili che rendono la nostra capacità di elaborare situazioni stressanti inefficaci, possono tuttavia intervenire a tutti i livelli di elaborazione descritti e determinare diversi esiti a seconda del processo compromesso. Uscire di casa in uno stato emotivo negativo perché stiamo vivendo una situazione familiare difficile, conflittuale o di violenza, ci espone a reazioni emotive più intense. Potremmo poi non aver dormito o mangiato regolarmente o non essere in buona salute, tutto questo pone il nostro corpo e la nostra mente in condizioni di svantaggio e di fronte alle difficoltà potremmo sentirci subito sopraffatti e fuori controllo. Proviamo allora a chiedere aiuto a chi abbiamo vicino, ad attivare l’ingaggio sociale di cui abbiamo bisogno come specie, e se alla fine anche questo fallisce, il nostro sistema di emergenza può valutare la situazione come non-affrontabile.
Allora le normali emozioni di rabbia e paura, possono diventare soverchianti, e generare comportamenti impulsivi, distruttivi, non regolati dall’attività delle cortecce superiori – normalmente orientate alla riflessione e alla valutazione delle soluzioni -, e dunque non finalizzati alla soluzione del problema, ma che rispondono alla sola necessità di azione, insita nello stato di urgenza. Se infine neanche questo funziona, il sistema limbico attiva una reazione definitiva di “congelamento emotivo”, in cui non è più possibile agire, né pensare.
Qui intervengono la resa, la passività, l’impotenza.
Quando i tre livelli principali di elaborazione non riescono a funzionare in modo coordinato ed efficace, l’esperienza avversa può trasformarsi in esperienza traumatica, creando cioè una rottura tra un prima e un dopo quell’evento, caratterizzata da una discontinuità nella percezione di sé, degli altri e del mondo. Non essere riusciti o non aver potuto affrontare in modo efficace un evento negativo, risulta più traumatizzante dell’evento in sé e può lasciare nel cervello tracce del suo passaggio. A livello corticale può conservarsi un’idea di se stessi come persona debole, impotente, cattiva; al livello limbico può permanere a lungo una reazione emotiva di allerta, di rabbia o di terrore; a livello del talamo e del tronco encefalico possono restare attive sensazioni somatiche (dolore, formicolii, anestesie..) o risposte fisiologiche automatiche (enuresi, svenimento,..). In questi casi l’esito difficilmente sarà di sentirsi orgogliosi di se stessi, capaci, forti e in grado di sopravvivere. Più facilmente la mente si riorganizzerà intorno a quello che ha appreso dall’esperienza: domineranno paura, insicurezza, tendenza ad evitare situazioni di rischio, o passività, sentimenti di inadeguatezza, debolezza o impotenza. La rottura e la discontinuità generate dal trauma si manifestano dunque nell’impossibilità di integrare questi frammenti di pensieri, emozioni e sensazioni all’esperienza traumatica e di dare loro un senso nel presente.
Il trauma e il corpo
Quando parliamo di pazienti traumatizzati, quale può essere il ruolo terapeutico delle parole laddove il corpo e la mente non sono integrati e connessi nell’esperienza stessa del raccontare? Secondo Van der Kolk, nessuno. Il motivo appare chiarissimo nella sua semplicità: quando si parla ad una persona traumatizzata, si parla ad un cervello e ad un corpo che vivono costantemente in uno stato di emergenza, in cui le parole e i significati saranno espressi senza mediazione delle cortecce e dunque senza alcuna possibilità di apprendimento ed elaborazione consapevole dei vissuti personali. Sentire e parlare diventano due attività indipendenti, o meglio dissociate, e le parole, le credenze, le idee di sé non riescono ad essere “incarnati” e connessi al corpo che li esprime.
I pensieri rischiano allora di restare fissi, rigidi e stereotipati, anche di fronte al migliore dei disputing! Nel trattamento di pazienti traumatizzati che hanno tracce mnestiche così vivide nel corpo, sarà inefficace utilizzare in prima istanza qualunque terapia basata solo sulla parola, senza un lavoro iniziale e progressivo sul corpo e sulla sua esplorazione.
L’intero lavoro di ricerca di Van der Kolk sembra orientato a riflettere proprio su questo dato e sulle sue fondamentali implicazioni cliniche: la necessità di organizzare protocolli di cura che rispettino innanzitutto la fisiologia della mente e poi come la mente e il corpo si riorganizzano a seguito di un trauma.
L’interocezione precede qualunque accesso all’introspezione. Prima di ogni riflessione, sarà importante rendere il respiro fluido e regolare, aiutare il paziente a sentire il corpo in tutte le sue parti, a riconoscerne le sensazioni fisiche, i cambiamenti interni, le fluttuazioni emotive nel qui ed ora. Sarà poi importante sperimentare le possibilità di movimento, conoscere i propri confini corporei, le diverse capacità espressive e imparare ad osservare come la mente reagisce al movimento. Solo dopo tutto questo la parola può essere incarnata e ascoltata, può riuscire a stimolare uno stabile cambiamento di prospettiva, di credenze, di idee di sé, di comportamenti.
Nel suo ultimo libro “Il corpo accusa il colpo”, il Dr. Kolk offre una disamina puntuale, ricca e molto supportata dalle neuroscienze, dei principali trattamenti psicoterapici presenti nel panorama attuale e orientati alla cura del trauma. Dall’EMDR allo yoga, dall’Esposizione narrativa al Qi Gong, dalla Mindfulness al teatro, passando per le più moderne terapie orientate al corpo, come la Sensomotoria e il Tapping e la Biodinamica Craniosacrale, il suo testo propone un’idea tanto semplice quanto convincente di come affrontare situazioni cliniche complesse:
Se la memoria del trauma è codificata nelle viscere, nelle emozioni sconvolgenti, nei disturbi autoimmuni e nei problemi muscolo-scheletrici, e se la comunicazione viscere-mente-cervello è la via maestra della regolazione emotiva, ciò richiede un radicale mutamento nel nostro modo di concepire la terapia (Van Der Kolk 2015).
Tratto da http://www.stateofmind.it/2016/01/trauma-corpo-accusa-colpo-van-der-kolk/